Il 9 settembre del 1998 ci lasciava Lucio Battisti. In un lungo e articolato saggio Marco Testi (critico letterario e scrittore) ne ricorda la figura e il senso della sua opera di cantautore.
Il 9 settembre di 26 anni fa moriva Lucio Battisti. Mai un cantautore aveva sollevato polemiche, celebrazioni, stroncature, amori e inimicizie come lui. Abbiamo parlato di stroncature. Non solo quelle avvenute dopo, quando si sciolse la collaborazione con Mogol per passare a quella con i testi di Velezia, alias la moglie Grazia Letizia Veronese e con Pasquale Panella, ma anche prima.
La sua voce non piaceva ai cultori del bel canto e agli amatori dei crooner, proprio nel bel mezzo di una temperie culturale, seconda metà dei mitici Sessanta, fino agli Ottanta, in cui la voce in campo musicale aveva subito trasformazioni tali da porre in secondo e terzo piano la vocalità tradizionale, quella alla Frank Sinatra, per intenderci. Spesso i critici si sono lamentati della incapacità del nostro panorama autoriale e canoro di sviluppare una nuova vocalità, aggressiva, roca, come sulla scorta della rivoluzione di Ray Charles stava accadendo per gli Animals, solo per fare un esempio. Dimenticando che la musica come l’arte stessa non è fatta per imitatori, e Battisti non imitava, semmai apprezzava le voci di Eric Burdon, frontman degli Animals: voci che il film di Wenders Perfect days ha genialmente rimesso all’attenzione del nuovo pubblico “citando” quello che è ormai un classico e non più solo un traditional interpretato se è per questo anche da Bob Dylan: The house of the rising sun, che finchè il sole splenderà sulle fortune e sfortune umane resterà una delle più belle e profonde canzoni di sempre.
Non solo questo: Battisti non imitava nessuno, perché quella voce che qualcuno ebbe a dire irta di chiodi era la nuova voce, identitaria e non piegata a repliche più o meno riuscite, di una nuova realtà creativa: certo medley di blues-rock, british invasion, beat del delta, ma anche falsetto, pieghe melodiche: una voce sua, unicamente sua, che ha fatto una nuova musica. Apprezzata da David Bowie, ad esempio, che lo ha citato tra i più grandi, e Bowie non è stato il rappresentante del melodico o del confidenziale, sempre aperto alle nuove creatività che stavano cambiando la musica non solo leggera, con i nuovi contributi della serialità, della dodecafonia, della nuova concezione dei suoni e dei silenzi di Cage.
E lo stesso Battisti si circondava di musicisti che stavano facendo un nuovo mondo musicale e imponendo un modo diverso di intendere chitarra, tastiere, flauto. E d’altronde con e dopo Hendrix la chitarra aveva conosciuto una rivoluzione in cui esperienza di vita, ansia esistenziale, fumo e altro, speranze e terrore della noia avevano creato nuove sonorità e nuovi modi di vivere il rapporto con lo strumento e con l’universo mondo.
Alberto Radius, Dario Baldan Bembo, Demetrio Stratos, Franco Mussida, Franz Di Cioccio, Gianni Dall’Aglio, Pietruccio Montalbetti: ai più giovani questi nomi forse diranno poco, ma tra Formula Tre, Dik Dik, Premiata Forneria Marconi, Ribelli, Area, rappresentano la crema del progressive rock italiano, della sperimentazione o della importazione di sonorità acide, atonali, blues, rock o new age, o comunque le si voglia chiamare. E Battisti odiava le definizioni intellettualoidi.
Tutti questi protagonisti della ricerca musicale, degli esperimenti vocali e delle tentazioni atonali ed elettroniche, hanno firmato musicalmente i dischi di uno che per molti di quell’area culturale era il campione della musica canzonettara. Uno che non avrebbe potuto contare nelle piazze politicizzate dei Settanta e che non era fascista come molti hanno sostenuto, ma che non era d’accordo con la politicizzazione della creatività e con i conformismi di massa.
Nel 1970 Battisti aveva già fatto uscire, attraverso quel pezzo d’antiquariato che si chiamava musicassetta (fu evitata per moltissimi anni l’edizione lp), il suo secondo disco. A dicembre, un suo fortunato 45 giri dà il titolo al nuovo long-playng del duo Battisti-Mogol, alias Giulio Rapetti (con qualche eccezione firmata da Renato Angiolini per quello che riguarda la musica). Emozioni è il primo lp del cantautore di Poggio Bustone ad arrivare in cima alla classifica italiana, ed è la summa dei suoi successi: “Fiori rosa, fiori di pesco”, “Mi ritorni in mente”, “Non è Francesca”, “Anna”, ma anche “Era” :una canzone folk inusuale per Lucio, che richiama molto “Catch the wind”, grande successo del cantautore inglese Donovan, ed infatti Donovan appare tra le preferenze del giovane Battisti, che era tra l’altro molto più informato sulla nuova musica di quanto ci abbiano abituato a pensare.
Certo, alcuni penseranno che con quei nomi alle chitarre, alle tastiere, ai bassi, con le parole di quello che era considerato il re degli autori di testi per la musica, non poteva andare diversamente. Ma la storia della musica ci insegna che non sempre il disco prodotto è la somma matematica dei suoi componenti. Ci vuole altro, qualcosa che contemperi miracolosamente voce, suoni, parole, atmosfera: senza la fusione alchemica, quasi mistica, di questi ingredienti il successo non coincide con la qualità.
È questa la chiave di volta per capire la permanenza delle canzoni di Mogol-Battisti nell’Olimpo musicale italiano. Prendiamo il pezzo del titolo: nel 1970 cantare la storia di un uomo che invece di agire, amare, corteggiare, dà via libera ai propri pensieri, anche quelli più segreti, sembrava un azzardo. Eppure il roco filo di voce di Battisti cantava uno che non sapeva dire il perché di una tristezza che improvvisamente si affaccia “in fondo al cuore”, l’incapacità di comunicare all’altra quegli strani pensieri per paura di esser preso per matto o per debole. Ciò che almeno una volta nella vita ha preso possesso di noi.
Quelle parole di Mogol forse non sarebbero state considerate poesia se lette, come stiamo facendo adesso, sulla carta di uno spartito o sullo schermo di un computer. È la fusione con una musica che non cerca la facilità mnemonica, ma tenta di rappresentare il significato stesso attraverso il graduale uso di violini (60 orchestrali diretti da Giampiero Reverberi) oltre che la tradizionale, leggendaria, ormai, chitarra iniziale, a fare la differenza. Era un primo geniale episodio di quella capacità di esprimere i pensieri più nascosti di chi sentiva dentro la difficoltà di vivere, di agire come i propri coetanei, che continuerà con un altro evergreen, la confessione di non avere il coraggio di vendere i libri fuori scuola come tutti i suoi compagni, di qualche anno dopo: “I giardini di marzo”.
Ma la capacità di raccontare se stessi e il proprio tempo non si esaurisce nell’introspezione lirica; prendiamo un caso diversissimo, quasi opposto: “Il tempo di morire”. Prese da sole le parole di disperazione di uno che vuole semplicemente -e ossessivamente- il sì della donna amata non attirerebbero ascoltatori abituati ad andare a fondo con elucubrazioni e raffinatezze. E però c’è la musica: un giro di chitarra con solo tre accordi staccati, e poi un basso ossessivo, e poi le note distorte della chitarra elettrica che vengono da molto lontano, dall’ascolto di Bo Diddley e B.B. King, ma anche da John Lee Hooker, vale a dire i maestri del blues che saranno alla base del rock-blues dell’ondata british negli anni Sessanta. E delle strazianti, geniali, lancinanti distorsioni di Jimi Hendrix di cui abbiamo già parlato.
Il fatto è che Lucio Battisti era molto meno commerciale e canzonettaro di quanto potesse apparire ai puristi dell’impegno assoluto, e già dall’uso della voce molti avevano capito che dietro c’erano i Rolling Stones, Ray Charles, Otis Redding, James Brown e soprattutto, come abbiamo già visto, gli Animals con quell’Eric Burdon dalla voce graffiante, roca e aggressiva. Ma nessuno, a quei tempi, tranne poche eccezioni, avrebbe mai associato il nome del ragazzo di Poggio Bustone a quello di quei mostri sacri di una musica non esattamente commerciale, anche se “The house of the rising sun” degli Animals aveva sbancato le classifiche: era pur sempre una storia di prostituzione.
L’attenzione fortissima del cantautore per la ricerca musicale, la sua volontà di spingersi sempre più oltre le soglie del passato lo portò assieme a Mogol, pochi anni dopo, in Brasile e poi in Argentina, a contatto con la musica di strada della gente che cantava il dolore ma anche la bellezza semplice e pura della vita e che darà origine alla sperimentazione coraggiosa di Anima latina.
Emozioni da questo punto di vista rimane una pietra miliare anche se non un disco-concept o sperimentale, perché è la summa del miracolo Battisti-Mogol, di quella capacità di leggere lo spirito del tempo, non quello di una generazione sola.
Le parole della disperazione che diviene cecità e poi follia di “Non è Francesca”, uno che non si piega neanche di fronte all’evidenza e di “Fiori rosa fiori di pesco” (altra, ulteriore storia, assai attuale di un uomo che non si arrende alla fine di una relazione) sono state accolte in virtù di un carisma ormai affermato, è vero: l’affermazione di quel carisma era però avvenuta proprio grazie alla capacità di dire ciò che la canzone del tempo, anche quella più nobile, non poteva e non osava dire.
Un modo in cui lo spirito della storia aveva trovato la sua voce in quello specifico campo, che, a pensarci bene, è durato trent’anni, donandoci canzoni apparentemente semplici e banali, come i tre -ancora una volta!- accordi di “La canzone del sole”, in cui i ricordi mogoliani di bambini spauriti diventano tutt’uno con un nuovo incontro.
In Battisti la musica ha rappresentato la realizzazione pratica di quanto le nuove discipline umanistiche e mediche andavano sostenendo: la lettura, l’ascolto, mettono in azione endorfine che simulano l’azione e in ogni caso fanno godere l’organismo e la mente di quell’empatia che ci permette di realizzare che non siamo soli a passare attimi terribili e che sembrano tali in un certo momento della nostra vita.
Il secondo momento battistiano, quello dei cinque dischi con Pasquale Panella è stato bistrattato dalla critica e da molti ammiratori di Lucio. Ma soprattutto Don Giovanni, siamo nel 1985, ha con sé la soluzione di questo nodo: i testi di Panella sono apparentemente senza il senso letterario precedente, ma il loro apparente gioco di inseguimento e repulsione lessicale, le assonanze e le conseguenzialità logico-semantiche vanno verso una diversa comprensione dell’esistenza, dell’amore, e del passato. Non solo nella canzone che dà titolo al disco, ma soprattutto in “Le cose che pensano”, dove il ricordo, i sensi di colpa, il timore dell’errore e la visione del momento divengono un nuovo medo di rappresentare, nell’unione tra parola e musica, l’io comunemente impegnato nella speranza del nuovo e nel timore dell’oppressione del passato.
Battisti semplicemente voleva andare oltre, conosceva le nuove soluzioni musicali e le nuove sonorità, e voleva dire anche la stanchezza del dire comune, l’utopia del riposo assoluto dalla parola-senso, l’invenzione di nuovi mondi che viene però da molto lontano, anche dalle avanguardie di primo Novecento che tentavano l’abolizione dei nessi logico-sintattici.
Una canzone-mondo, che chissà dove ci avrebbe portati, al di là delle etichette e degli ismi.