Ritmo dettato dalla partitura musicale di Hans Zimmer per vivere una settimana a terra, un giorno in mare e un’ora in cielo nel bel mezzo della disperata evacuazione dei comandi anglo-francesi, costretti a ripiegare verso le coste della Manica dal cuneo tedesco. Nolan con Dunkirk riesce a comporre un lungometraggio che sembra distante dai giochi che lo caratterizzano ma ne mantiene l’inconfondibile e personalissimo stile, fatto di tormenti e ossessioni legate alla linea cronologica. L’unità di tempo, di luogo e di azione esplode nei diversi punti di vista per lasciare spazio all’immediatezza della percezione, che si mostra malleabile come il burro con il semplice cambio di piano. Il regista britannico lo fa con una confezione ineccepibile, realistica e perfettamente equilibrata nella sua compattezza formale. Ci porta davanti agli occhi l’odissea di 400.000 soldati. Non la storia del singolo, il sentimentalismo e la gloria ma le spiagge, gli spitfire, gli oceani, i pescherecci, i crepuscoli e la verità della natura umana tesa solo nell’atto della sopravvivenza. Un’esperienza cinematografica immersiva, quasi muta, dove lo storytelling tradizionale lascia il posto all’impressionante fotografia di Hoyte Van Hoytema. Christopher Nolan affronta il film di guerra, genere cinematografico abusato, da una prospettiva mai raccontata, quella del conflitto e della specie, dell’organizzazione e del sacrificio, della cronaca reale che inanella scarponi rubati a morti prive di grandiose inquadrature, del particolare e dell’universale. Puro in tutta la sua secca potenza, con una sensibilità non comune. Da vedere senza esitazioni.