Di Roberta Mochi
Il posto perfetto per morire sembra sia la misteriosa foresta di Aokigahara, o almeno lo sembra ad Arthur Brennen, protagonista dell’ultimo film di Gus Van Sant.
Col suo trench e un paio di occhiali indistruttibili (e per questo molto poco credibili) Arthur affronta, in un peregrinare difficile e quasi infinito, un mare di alberi trascinato dal senso di colpa e al tempo stesso spinto da un irrinunciabile desiderio di aiutare il prossimo. Il professore di fisica si affanna tra i sentieri e si addentra nel verde per uscirne, però, con una ritrovata voglia di andare avanti.
Con molti flashback il film racconta un momento di passaggio faticoso come l’elaborazione di un lutto ma lo fa in modo goffo alternando all’elegante fragilità, a cui ci ha abituati il cinema di Van Sant, la dimensione spiritualistico-fantastica, all’ancestrale rapporto con la natura la banalità e i sentimentalismi da melodramma.
Non basta infatti la fotografia carica di energia di Kasper Tuxen a mistificare la sceneggiatura Chris Sparling, non basta il tocco lieve della regia a nascondere gli eccessi, gli espedienti e le ridondanze con cui si cerca di descrivere lo smarrimento dell’animo umano.
La pellicola, priva di connessioni apparenti proprio come un haiku, lentamente e noiosamente va avanti, penalizzando bravi interpreti come Ken Watanabe e Matthew McConaughey, con i suoi personaggi privi di spessore.
Il regista di “Elephant” e di “Milk”, che ci ha viziati senza moralismi con ferite, ragazzi randagi, silenzi e dilatazione narrativa si è lasciato sedurre dalla metafora della redenzione e ci ha fatto ritrovare immersi in una lunga storia di salvezza dove il momento che precede la tragedia, caro a chi conosce la sua filmografia, è scomparso, disperso nella foresta, inghiottito dal giallo di un’orchidea appena sbocciata.