Di Roberta Mochi
Una voce fuori dal coro, quella di Luisa Pignatelli, scrittrice molto nota in Francia ma meno conosciuta in Italia, che col suo romanzo ‘Ruggine’ ci porta in un mondo molto lontano da quello a cui il mainstream ci ha abituato.
Il suo è un racconto costruito nella campagna Toscana letteraria e senza tempo. Il romanzo non parla della vecchiaia, piuttosto della vita di una donna emarginata ma ancora non spenta, del suo rapporto con un fedele e indipendente amico, un gatto di strada libero e del colore del ferro; ma parla anche della maldicenza sulla bocca di tutti, in un paese gretto di poche anime, di un dramma domestico consumato nel silenzio e nella solitudine di un atroce, lunghissimo biasimo.
Il testo racconta in modo ossessivo, quasi come fosse un vecchio ricamo all’uncinetto, gli stessi episodi. Come se nella ripetizione di una vita subita, ci fosse la vera condanna di una donna cadente ma dall’intelletto ancora troppo vivace. Lei, la strega di Montici, è una persona che subisce tutto, la noia, una vita spenta, un figlio morboso e dedito all’incesto, lo sfratto, il furto della piccola pensione, le false parole. Eppure nel volume edito da Fazi, non si riesce davvero ad entrare in empatia con il personaggio, perché se il villaggio è feroce, la vecchia Ruggine simpatica non è. È una eroina dura, spigolosa e sospettosa che non mostra neppure nei confronti del suo compagno dal manto fuliggine slanci di grandi sentimenti, quanto piuttosto un affetto basato sul bisogno reciproco e sulla convenienza. Non è un caso se, trasferitasi nella residenza dell’Olmo, non sarà lei a cercare il suo amico a quattro zampe ma, una volta recuperato il felino grazie alla visita del buon parroco, gli “succhierà” la vitalità con le proprie chiacchiere.
Tuttavia, in questo che sembra essere un racconto quasi lirico del mito della bellezza della semplicità e del ritorno alla tradizione, narrato con uno stile sobrio, intenso e solo a tratti contaminato da piccoli sprazzi di gergalità, si innesta l’idea di come sia sopravvalutata la finta purezza del villaggio, che non conosce la pietà e la speranza ma solo la secca acredine della prepotenza e della crudeltà che in fondo è solo egoismo e abitudine. La Pignatelli usa sapientemente le parole per ingentilire ciò che gentile non è più e che forse, come ci porta a credere, non è mai stato. Questo linguaggio antico è davvero l’unica fonte di bellezza di un dramma verghiano dove, nella personale lotta alla sopravvivenza, non c’è però per i vinti la dignità eroica della rassegnazione.
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