Di Roberta Mochi
Zero K è l’ultimo romanzo dello scrittore americano Don DeLillo – per chi non lo conosce si tratta dell’autore di Underworld, Rumore bianco e Cosmopolis – pubblicato da Einaudi nella traduzione di Federica Aceto. Il titolo si riferisce alla temperatura più bassa in assoluto, lo zero kelvin. La storia è infratti quella di un milionario Ross Lockhart, la cui moglie sta per morire. Lockhart è anche il principale finanziatore della labirintica clinica Convergence, specializzata nel conservare i corpi nella speranza che la scienza possa scoprire – prima o poi – il modo di farli tornare in vita. A raccontarci tutto questo è Jeffrey, il figlio, che ovviamente concepisce la fine dell’esistenza in tutt’altra maniera.
Anaffettivo, come solo DeLillo sa essere, il libro ci racconta l’illusione tutta umana di una ipotetica sconfitta della morte, ambientandola in una realtà che non è poi così fantascientifica – visto che le cliniche di crioconservazione esistono davvero – dove le relazioni si disintegrano sotto i colpi del disinteresse dei personaggi e i dialoghi sfiorano l’assurdo in delirio vertiginoso di domande. “L’io. Cos’è l’io? Tutto quello che siamo, senza gli altri, senza amici, estranei, amanti, bambini, strade da percorrere, cose da mangiare, specchi dove guardarsi. Ma si è davvero qualcuno senza gli altri?”. Nel farlo ci mette sotto agli occhi uno sbalorditivo uso della lingua. Nel monologo di Artis, quando si trova in sospensione crionica nella capsula, vengono raggiunge livelli di ricercatezza elevatissimi, intrecciando risposte in prima e in terza persona e scegliendo di scostarsi dal modo di parlare tipico della signora Lockhart, proprio per simulare un possibile linguaggio mentale privo di colore.
Lucidamente l’autore pone uno sguardo asettico su un pianeta, il nostro, dove l’uomo subisce la stessa estrema fascinazione dalla religione quanto dalla scienza, dove ci si perde a vagabondare nell’eleganza algida e disumanizzata per descrivere l’impossibilità di separarsi in un addio inevitabile.
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