Di Roberta Mochi
Il regista teatrale inglese William Oldroyd esordisce nell’universo cinematografico con la trasposizione del romanzo Lady Macbeth nel distretto di Mcensk, di Nikolaj Leskov, che era già stato portato sul grande schermo negli sessanta e trasformato in un’opera lirica nel 1934 da Dmitrij Šostakovič. Questo Lady Macbeth è di fatto una parabola spietata, asciutta e disarmante. Realizzato con un basso budget ed eccellente nella confezione, trasferisce l’ambientazione elisabettiana nella campagna bretone, e ci presenta uno dei personaggi femminili più sfaccettati della drammaturgia shakespeariana. Florence Pugh incarna perfettamente l’impulsiva spavalderia e la fiera spietatezza di una giovane sposa indipendente e priva di sensi di colpa. Protagonista della storia è infatti di Katherine Lester, egoista e annoiata ragazza dal fascino oscuro, che viene data in sposa ad un uomo ricco, assente e succube del padre. Rinchiusa in una casa austera e travolta dalla passione carnale per uno stalliere, la donna si scoprirà capace di scegliere se stessa e la propria liberà, prima di qualunque altra cosa, anche delle dolci promesse dell’amore. La potenza di questo film asciutto e rigoroso di Oldroyd è tutta nelle immagini. Tra macchina a spalla e inquadrature fisse ci si palesa un universo stilisticamente controllato, sibilante di metafore e suggerimenti. Così gli abbracci si rivelano fasulli se montati assieme ad un cavallo in decomposizione, e il climax di sensuale malvagità ci viene anticipato dai toni degli abiti, che si fanno sempre più cupi. Nessuna devozione, nessuna redenzione nella follia. La tensione è quella fredda e lucida di trattare temi di grande attualità come la violenza razziale, di classe, familiare e di genere attraverso la modernità di una feroce eroina contemporanea che veste abiti ottocenteschi e esercita il proprio potere con silenzi assoluti.
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