Di Roberta Mochi
Un racconto indimenticabile sulla civiltà del disagio. Moshin Hamid riesce con una grande accuratezza descrittiva, una magistrale sensibilità emotiva – e soprattutto estrema naturalezza – a mettere in piedi un racconto da romanziere dell’800, e ci sussume l’universale attraverso il destino individuale di due persone straordinarie nella propria normalità, complicata e imprevedibile. Il terzo lavoro di questo scrittore pakistano ci parla dell’amore di Saeed e Nadia, in fuga da una città mediorientale non ben identificata, devastata dalla guerra civile. Ne esce un fantasy metaforico dove i barconi e i centri di accoglienza sono sostituiti dalle “black doors”, porte magiche in grado di trasportare in un misterioso altrove. La prospettiva della narrazione è quella di chi fugge, del migrante, tra spiagge sovraffollare della Grecia e confini di filo spinato, arrangiati hub di primo soccorso e miliziani tagliagole. Così i due ragazzi crescono in un pugno di notti, si amano, si desiderano, si proteggono, si allontanano in uno spazio dove l’unico desiderio è sopravvivere. Il destino comune che spersonalizza, la psicologia dell’esilio, le contraddizioni dei profughi – dove l’apocalisse è già arrivata e dove i passaggi sono a metà strada tra la nostra realtà tecnologica che accorcia le distanze e gli armadi di Narnia – fanno sì che Nadia e Saeed percepiscano ogni giorno il fallimento del futuro insieme e della propria dignità, e possano vederla appassire sotto ai propri occhi come pianta di limone. Un romanzo di una attualità sconvolgente, potente e visionario insieme.
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