Durante tutto il secolo scorso, nella Valle dell’Aniene, quando ancora una buona parte dei suoi abitanti lavorava nelle gallerie, nelle miniere di carbone (soprattutto all’estero), nelle cave di travertino, nelle polveriere e nei cantieri edili, all’inizio di dicembre questi operai avevano una propria santa protettrice da celebrare solennemente: Santa Barbara. Ed erano associati in Confraternite o Fratellanze con caratteristici abbigliamenti che vestivano nelle manifestazioni devozionali (processioni) o assistenziali (cortei funebri): ju camice, ju cordone e la mandéllina.
“Motu proprio” di Paolo VI
Dal 1970, però, al 4 dicembre molti calendari non riportano più la festa di Santa Barbara ma, in sua vece, quella di San Giovanni Damasceno. E questo a seguito del “motu proprio” di Paolo VI del 1969 con il quale molti santi sono stati “declassati” perché gli agiografi non hanno potuto accertarne notizie storicamente fondate. Tuttavia la Sacra Congregazione dei Riti non vieta di festeggiarne la ricorrenza, soprattutto là dove il culto è radicato e giustificato.
Così i vigili del fuoco, gli artificieri, gli artiglieri (li bbombardieri e li cannogneri, scriveva nel 1907 il romano Giggi Zanazzo), i minatori, i lavoratori di galleria e, in generale, tutti/e coloro che hanno a che fare con il fuoco (pirotecnici, cavatori, armaioli) o hanno timore dei fulmini (Sanda Barbara e Sanda Lisabbétta, libberatece da ‘gnì fùrminu e da ‘gnì saetta) hanno proseguito a celebrarla con una messa sul campo e relativo sparo di mortaretti il giorno della festa o, spostata alla domenica successiva, con processione, banda, grandi spari e, in qualche luogo, anche fiera di merci.
Intorno a questa santa, il cui culto si sviluppò soprattutto nel medioevo a seguito delle crociate, sono fiorite numerose pie leggende. Si dice sia nata tra il III e il IV secolo in luoghi diversi (Nicomedia, Antiochia e persino in Toscana) e che poi si trasferì con la sua ricca famiglia a Scandriglia (Rieti). Era talmente bella che tutti la volevano in sposa. Il padre Dioscuro voleva maritarla ad un principe, ma lei si rifiutò. Rinchiusa in una torre, si auto-battezzò immergendosi in una piscina. Il padre, quando scoprì che s’era convertita alla religione cristiana, cercò invano di farla abiurare. Barbara scappò dalla torre realizzando una miscela esplosiva con alcuni minerali trovati nel luogo. Catturata, fu torturata, ustionata con piastre di ferro, messa al rogo ma inutilmente. Allora il padre la decapitò. Ma all’istante fu colpito da un fulmine a ciel sereno che lo incenerì. Questo fulmine a ciel sereno è divenuto, poi, il simbolo della “mala morte” e per questo santa Barbara viene invocata per proteggersi dai fulmini e dalla morte improvvisa. Il motivo della fanciulla (o fanciullo) perseguitata dal padre perché convertita al cristianesimo e della punizione del persecutore è ricorrente nell’agiografia di queste sante.
Nel Lazio, questa giovane vergine e martire è patrona di quattro comuni: Rieti, dove furono traslate le sue spoglie nella cattedrale di Santa Maria; Scandriglia, dove la leggenda vuole sia stata decapitata; Colleferro, fino a pochi anni fa centro industriale per la produzione di esplosivi; Barbarano, dove, per l’occasione, si tiene anche una grande fiera.
Nella valle dell’Aniene sono documentate manifestazioni religiose in suo onore a Tivoli, un tempo importante centro produttivo di polvere da sparo, e Roviano, nel secolo scorso divenuto famoso per i suoi minatori, lavoratori di galleria e carpentieri.
Santa Barbara a Tivoli
Ancora una quarantina d’anni fa c’era a Tivoli, in una piccola chiesa sconsacrata attigua ai locali dell’antica polveriera in via degli Orti, un affresco di pittore ignoto della santa raffigurata inginocchiata a terra con il padre dietro che impugna una sciabola e sta per colpirla a morte, sopra un angelo con una corona di rose.
Il culto popolare per questa santa nel territorio tiburtino, dove si estraeva marmo, si scavavano cunicoli e gallerie, si fabbricavano polveri da sparo, era molto vivo tra gli operai e gli impresari, testimoniato dall’esistenza della “Corporazione dei polverari”. Oggi i polverifici non ci sono più, e le tecniche d’escavazione e traforazione sono completamente mutate. La santa, perciò, non può svolgere più la sua funzione protettiva, che viene richiesta, invece, dai pompieri che sono sempre a contatto con il fuoco.
Clara Regnoni Macera, sessant’anni fa, a testimonianza del culto per santa Barbara registrò a Tivoli un canto agiografico “derivato da poesia a stampa di tipo popolareggiante” molto diffuso tra i devoti, che qui sintetizziamo: Quanno che Santa Barbara nascine / subitamente la madre morine / lu patre non avea che se ne fane / drento a ‘na rotticella la ghiea a buttane […] S’affaccia Barbaruccia alla finestra / co ‘na corona ‘mmani e n’atra ‘ntesta. / “O tata, tata, che sei venuto a fane?” / “Figghia te so trovato a maritane” / “O tata, tata, maritu l’ho pigghiatu / lu figghiu de Maria me so spusatu” / Lo figghiu de Maria lascialo andane / che nu riccu ‘mperator te vogghio dane” […] “Agghiutame Maria mo’ ch’è tempu / non lo so avuto mai tantu spaventu”.
La festa di Roviano
Qui ancora si festeggia santa Barbara, pure se la Fratellanza ormai si compone di 6-7 fratelli che continuano ad indossare il saio bianco con la mantellina e il cordone rossi (colore del martirio). Fondata nel 1904, dopo che i contadini rovianesi avevano appreso il lavoro di minatori e carpentieri lavorando alla costruzione della ferrovia Roma-Sulmona (1882-88) ed emigrando un pò per tutta l’Italia ed Europa, la Fratellanza fino agli Settanta dello scorso secolo contava molti iscritti e, oltre a partecipare alla processione con la statua e gli attrezzi (stennardu, lindernuni, cambanèlla, paci, croce, stennardina, bandiera) svolgeva funzioni anche di assistenza in caso di morte pagando il funerale e la cassa al confratello. Nel 2004, in occasione del centenario, è stato rinnovato il grande arazzo processionale (ju stennardu) raffigurante, su un verso, la santa e sull’atro due operai all’imbocco di una galleria con gli attrezzi da lavoro e casse di esplosivo.
La sera della festa si bussola ancora il festaròlo, il quale conserva tutto l’anno in casa la statuina della santa in bronzo-dorato e la sua dote consistente in numerosi ex-voto in oro.
Castel Madama
A Castel Madama, invece, ancora nel 1996 c’era una devota che perpetuava un antico rito legato alla leggenda dei “rami fioriti di santa Barbara”. Si tratta di raccogliere ramoscelli d’albero di ciliegio il 4 di dicembre, metterli in un vaso con acqua tiepida ed aspettare fino a Natale, giorno nel quale fioriranno. La credenza popolare vuole che questo miracolo sia opera della martire. Un’altra leggenda narra, infatti, che “mentre Barbara veniva condotta in prigione, un piccolo ramo di ciliegio le si impigliò nel vestito. Giunta in cella, immerse il rametto in una coppa d’acqua ed esso fiorì proprio lo stesso giorno del suo martirio”.
Simboli ricorrenti nell’iconografia della Santa sono, oltre alla veste rossa ed alla palma nella mano destra, gli strumenti di lavoro dei minatori, la torre dove fu rinchiusa con tre finestre (Trinità), il fulmine, un calice con l’ostia e la spada con la quale fu decapitata.
Questi due anni di pandemia da Covid 19, però, hanno quasi definitivamente ammazzato questa devozione popolare, già divenuta residuale per via dei profondi mutamenti socio-economici e culturali impostisi all’inizio di questo nuovo secolo ipertecnologico.
Artemio Tacchia