Valeria Marini e la truffa da 350 mila euro subita dalla madre | Condannato a un anno il produttore
Valeria Marini e la madre (Rai Play) - NotiziaLocale
Un investimento in criptovalute che sembrava sicuro, presentato come un’occasione da non perdere, e 350mila euro di risparmi affidati a chi, secondo l’accusa, avrebbe dovuto farli fruttare. Ma per Gianna Orrù, 84 anni, madre della showgirl Valeria Marini, quei soldi non sono mai tornati indietro. La vicenda è approdata nelle aule di piazzale Clodio, a Roma, dove si è chiuso il processo di primo grado contro Giuseppe Milazzo Andreani, condannato a un anno di reclusione – pena sospesa – per truffa aggravata.
La storia, raccontata in dettaglio durante le udienze, intreccia il mondo dello spettacolo con quello degli investimenti in bitcoin. A fare da tramite tra la vittima e l’imputato è stata proprio Valeria Marini, che ha conosciuto Milazzo per motivi professionali. Nel pomeriggio di ieri il giudice monocratico ha letto la sentenza, riconoscendo le responsabilità dell’imputato secondo l’impostazione dell’accusa. La decisione non è definitiva: la difesa ha già annunciato l’intenzione di fare appello e lo stesso imputato continua a dichiararsi estraneo ai fatti.
Dal cortometraggio all’investimento in bitcoin: come nasce il rapporto
In aula è stata ricostruita l’origine del rapporto tra le parti. Secondo quanto riferito da Valeria Marini, Milazzo Andreani l’avrebbe contattata inizialmente tramite la sua segretaria, presentandosi come produttore cinematografico. Il progetto proposto era un cortometraggio dal titolo “L’ultimo applauso”, che avrebbe dovuto uscire nel 2016, finanziato – così sosteneva l’imputato – attraverso fondi Imaie, l’ente che tutela gli artisti.
Terminate le riprese, è Gianna Orrù a entrare più direttamente in contatto con Milazzo. La madre della showgirl non era soddisfatta del montaggio finale del video e desiderava apportare correzioni. Da quel momento, ha raccontato Marini, è stata la madre a occuparsi in prima persona della questione, mentre lei era impegnata su altri fronti lavorativi. L’imputato, descritto come sempre molto ossequioso nei confronti della signora Orrù, continuava a cercarla spesso per coltivare un rapporto di collaborazione.
Stando alla testimonianza della showgirl, Milazzo non si sarebbe mai presentato come intermediario finanziario. Eppure, dopo qualche mese, il dialogo tra lui e l’anziana donna cambia tema: dal cinema si passa agli investimenti in criptovalute. È allora che, secondo la ricostruzione fatta in Tribunale, viene proposta a Gianna Orrù l’idea di entrare in una piattaforma di bitcoin con l’obiettivo di ottenere importanti guadagni.
La vittima ha spiegato che si sarebbe partiti con un primo versamento di 10mila euro, trasferiti tramite bonifico bancario a Milazzo e poi caricati sulla piattaforma indicata. Nei mesi successivi i bonifici sarebbero proseguiti, con importi crescenti, fino a superare complessivamente i 300mila euro. Tutto questo, ha raccontato, senza che la figlia fosse a conoscenza dei dettagli dell’operazione.
Vergogna, denuncia e processo: la frattura in famiglia e la battaglia legale
È Valeria Marini a spiegare come abbia scoperto l’accaduto solo in un secondo momento, quando la situazione era già molto avanzata. «Ho scoperto tutto quando mia madre aveva già investito 200mila euro», ha raccontato. All’inizio le preoccupazioni erano per la salute: la vedeva triste, abbattuta, e temeva problemi fisici. Solo in seguito l’anziana donna le avrebbe confessato di aver affidato i suoi risparmi a un investimento in bitcoin, sperando ancora di recuperarli per una questione di dignità e onore.
La showgirl ha parlato anche del peso psicologico che questa vicenda avrebbe avuto sulla madre. «Si vergognava di essere stata raggirata – ha detto – al punto da rifiutarsi persino di aprirmi la porta di casa». Un atteggiamento che, secondo il racconto in aula, avrebbe creato una frattura anche nel rapporto tra madre e figlia. «Questa persona l’ha distrutta», ha aggiunto, riferendosi all’imputato.
Di fronte alla mancata restituzione delle somme e all’assenza di riscontri concreti sui presunti guadagni, nel febbraio 2020 Gianna Orrù decide di rivolgersi alle forze dell’ordine e presenta denuncia. Da lì partono le indagini che porteranno, nel marzo dell’anno scorso, all’apertura del processo in Tribunale. Dopo circa un anno e mezzo di udienze, ascolto dei testimoni e acquisizione degli atti, arriva la sentenza di primo grado: un anno di reclusione, con pena sospesa, per truffa aggravata.
Dal canto suo, Giuseppe Milazzo Andreani continua a respingere tutte le accuse. In dichiarazioni riportate fuori dall’aula, l’imputato ha ribadito di essere «estraneo ai fatti» e di volerlo dimostrare nelle sedi giudiziarie, ricordando che «i processi si fanno nei Tribunali e non sui giornali» e lamentando una presunta strumentalizzazione della vicenda sin dal primo giorno. Sulla stessa linea l’avvocato difensore, Sergio Stravino, che ha annunciato l’intenzione di impugnare la decisione: «Le sentenze non si commentano, si impugnano. Proporrò appello per dimostrare l’insussistenza del fatto».
La vicenda giudiziaria, quindi, non è chiusa. La condanna di ieri rappresenta solo il primo passaggio di un percorso che potrà proseguire nei gradi successivi. La difesa fa notare anche che, secondo i calcoli, il reato maturerebbe la prescrizione a febbraio, aggiungendo un ulteriore elemento di incertezza sull’esito finale. Per Gianna Orrù, però, al di là dei tecnicismi, resta il peso di un investimento mai rientrato e di una ferita personale e familiare difficile da rimarginare, nata da una promessa di facili guadagni nel mondo dei bitcoin che si è trasformata in una lunga battaglia legale.
