Affitto in nero, la sentenza che spazza via i proprietari: l’inquilino può far crollare il canone in un attimo

Affitto in nero, la sentenza che spazza via i proprietari: l’inquilino può far crollare il canone in un attimo

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Un contratto scritto ma non registrato può diventare un boomerang per il locatore: il giudice può ridurre drasticamente l’affitto, riportandolo ai valori calmierati.

In Italia l’affitto in nero è ancora una pratica più diffusa di quanto si voglia ammettere. Molti proprietari, nel tentativo di “risparmiare” sulle tasse, propongono contratti scritti ma mai registrati, convinti che si tratti di un accordo conveniente anche per l’inquilino. In realtà, la legge rovescia completamente questa percezione, offrendo al conduttore uno strumento potentissimo: la possibilità di chiedere al giudice di ricalcolare il canone e pagare molto meno.

Una tutela così incisiva che spesso ribalta gli equilibri del rapporto di locazione. La Corte di Cassazione, con una sentenza destinata a fare scuola, ha chiarito come e quando questo meccanismo può essere attivato, confermando diritti che molti inquilini ignorano e rischi che molti proprietari sottovalutano.

Cosa succede davvero quando l’affitto è in nero

Quando esiste un contratto di locazione scritto ma non registrato nei termini di legge, quel contratto è considerato nullo. Questo non elimina il rapporto di locazione nella realtà dei fatti, ma apre la porta a un rimedio previsto dall’articolo 13, comma 6, della legge 431/1998: la riconduzione a congruità. Significa che l’inquilino può chiedere al giudice di accertare l’esistenza del rapporto e di sostituire il canone concordato “in nero” con quello legalmente previsto. La Cassazione, con la sentenza 15891 del 13 giugno 2025, ha chiarito che questa procedura vale anche per i contratti firmati prima del 1° gennaio 2016, purché gli effetti decorrono solo da quella data. In altre parole, anche un vecchio contratto non registrato può essere ricalcolato, ma solo dal 2016 in avanti.

Il giudice, nel rideterminare il canone, non ha margini discrezionali: deve attenersi ai limiti degli accordi territoriali della zona, cioè ai valori del canone concordato stabiliti dalle associazioni dei proprietari e degli inquilini. Se il contratto in nero prevedeva un importo più alto di questi parametri, il canone viene automaticamente abbassato. Se invece era già inferiore, il giudice non può ritoccarlo verso l’alto: prevale sempre l’accordo più favorevole all’inquilino. È un meccanismo che tutela la parte debole e che, allo stesso tempo, scoraggia la pratica del nero, considerata una distorsione del mercato immobiliare.

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Quando il giudice può ridurre l’affitto e quando no

La rideterminazione del canone scatta solo se il prezzo pattuito supera i valori massimi previsti dal canone concordato della zona. Il giudice non può alzare un affitto già basso, ma può ridurlo in modo drastico se è eccessivo rispetto ai parametri territoriali. Così, chi pagava 800 euro al mese in un contratto non registrato potrebbe ritrovarsi a pagare 500 euro, se questo è il tetto previsto per immobili simili nella sua area. Al contrario, se il contratto prevedeva un affitto di 400 euro a fronte di un valore massimo di 500 euro, il giudice non potrebbe intervenire: l’accordo rimarrebbe valido, perché più vantaggioso per l’inquilino.

La Cassazione ha anche specificato che la regola si applica a tutti i contratti abitativi scritti ma non registrati, a prescindere dal fatto che fossero nati come canone libero o canone concordato. Questo perché il rinvio normativo dell’articolo 13 comma 6 è generico e comprende entrambe le tipologie previste dall’articolo 2 della legge 431/1998. Dunque, non esiste distinzione: ogni contratto non registrato rientra nella disciplina della riconduzione a congruità. Un chiarimento che rende il quadro giuridico molto più semplice e, allo stesso tempo, mette i proprietari di fronte a una verità spesso ignorata: risparmiare sulle tasse può trasformarsi in un rischio economico ben più grande.