Visto da me/ C’era una volta una donna che cercò di uccidere la figlia della vicina
Di Roberta Mochi Per chi non la conosce Ljudmila Petruševskaja è una scrittrice russa, nata in pieno stalinismo, come ci racconta il traduttore Mario Caramitti. A causa delle imposizioni del regime le sue opere circolano poco, e quando lo fanno, lo fanno clandestinamente. Solo negli anni Ottanta la sua prosa viene conosciuta in patria ed […]
Di Roberta Mochi
Per chi non la conosce Ljudmila Petruševskaja è una scrittrice russa, nata in pieno stalinismo, come ci racconta il traduttore Mario Caramitti. A causa delle imposizioni del regime le sue opere circolano poco, e quando lo fanno, lo fanno clandestinamente. Solo negli anni Ottanta la sua prosa viene conosciuta in patria ed entra nella rosa della letteratura contemporanea russa “importante”. La sua esperienza in orfanotrofio, l’accusa di “nemici del popolo” fatta alla sua famiglia, la fame, le privazioni la rendono in una scrittrice forte, acutissima, spietata e di intelletto tanto vivace da non poter essere apprezzata con una lettura veloce. C’è bisogno di respirare lentamente per entrare nella sua narrazione.
“C’era una volta una donna che cercò di uccidere la figlia della vicina” è una raccolta da leggere piano, per avere il tempo di abituarsi alla potenza delle immagini crude, al linguaggio spesso troppo colloquiale; tempo per assaporare i dettagli, per arrivare a toccare tutto quello che c’è davvero nei brevi racconti. In queste storie infatti c’è il popolo affamato, che non ha tempo di giudicare perché troppo preso a sopravvivere, ci sono fantasmi, le contraddizioni, le suggestioni folcloristiche che accompagnano la sofferenza del quotidiano. Ci sono i mille particolari di un mosaico composto dalla realtà delle piccole cose di poca importanza, dalla memoria collettiva e dalla mitologia. Il mito, che sia Orfeo, Poseidone, la resurrezione, il viaggio negli inferi è il mezzo per traghettare nel surreale, nel sinistro, in una dimensione ultraterrena e forse salvifica.
Anche se Ljudmila Petruševskaja è spesso considerata la principale esponente del noir russo, questo fa solo da affascinante sfondo alla tipizzazione e agli archetipi. Nella sua scrittura tutto si fa parabola, allegoria porta di accesso allo sconosciuto. Del resto l’autrice ha prodotto numerosi libri di fiabe e questo background si percepisce prepotentemente. Favole e grottesco quindi, ma non aspettatevi la “Morte malinconica del bambino ostrica e altre storie” di Tim Burton, con le sue note tenere e drammatiche. In queste storie il gotico-malinconico cede il passo al granguignolesco.
Petruševskaja spinge il lettore con un linguaggio semplice, veloce, secco, atroce verso il confine di un territorio inesplorato, onirico e ordinario allo stesso tempo, un mondo desolato fatto di villaggi poveri, di case indigenti, di giornate vuote e fangose ma anche irreale, sfrenatamente fantastico come nella grande tradizione delle fiabe russe, come nella scrittura di Gogol, a cui è impossibile non pensare.
Figure predilette quelle femminili, infelici e intrappolate nel nulla, in un piccolo universo familiare che le isola e ne disgrega l’identità. Tese nel loro istinto di autoconservazione, nel desiderio di fuga mentre l’autrice le guarda e le accompagna compassionevole e immobile, come la gatta dei suoi racconti.
Copertina sublime e azzeccatissima di Einaudi Stile Libero. Una matrioska, opera di Riccardo Falcinelli, una realtà semplice e contadina che nasconde dentro di sé la molteplicità, illustrata con i tratti semplici del disegno di bambino.

